Paestum 2012. Passioni durature

Lea Melandri

 

 

Se mi chiedessero che cosa differenzia il femminismo dagli altri movimenti, direi innanzi tutto che nessuna rivoluzione ha creato rapporti di amicizia e passioni politiche così durature, percorso strade diverse, talora contrastanti e apertamente conflittuali, senza perdere il piacere di rincontrarsi. Paradossalmente, le ragioni che l’hanno portato spesso a dividersi e frammentarsi sono le stesse da cui può nascere all’improvviso inaspettata la spinta all’accomunamento. Ne indico solo alcune: il valore che si è dato alla vita personale, la pretesa di portare la parola in prossimità del corpo e di tutto ciò che di “impresentabile” ancora trattiene, la volontà di sottrarsi ad appartenenze precostituite per far crescere ogni volta la forza collettiva da singolarità autonome in relazione tra loro.
L’incontro che si è tenuto a Paestum  -lo stesso luogo che ospitò 36 anni fa l’ultimo convegno del movimento delle donne, nel 1976-  si è presentato coi tratti felici di una “ripresa”: consapevolezza del patrimonio di saperi e pratiche che si sono andate sedimentando nel tempo, riattualizzazione  degli assunti più radicali degli anni Settanta: uscita dal dualismo che ha contrapposto, insieme al destino dell’uomo e della donna, privato e pubblico, politico e non politico, soggettività e mondo, cura, amore e lavoro, produzione di beni e riproduzione della società.
Quella che fu vista allora come “la protesta estrema del femminismo”  -il movimento che  aveva costretto la politica a fare i conti con la “materia segreta” posta ai confini tra natura e storia, sulla linea d’ombra  che la separa dalla “inquietante persona” (Rossana Rossanda)-  può diventare oggi la “sfida” a un modello di sviluppo e di civiltà che ha subordinato il vivere al produrre, la creatività al consumo, la cura dei bisogni primari dell’umano alle regole dell’accumulazione capitalistica.
La “rivoluzione necessaria” comincia da qui, portando l’interrogativo del cambiamento possibile alle radici di una crisi che era già inscritta nell’atto fondativo del dominio maschile. Si tratta di collocare nel giusto ordine il rapporto tra mezzi e fini, correggere l’universalismo astratto dei diritti umani, proiezione di un “io maschile” che si è pensato libero dai vincoli biologici, partendo dalle vite reali di donne e uomini viste nella loro complessità.
Se è stato il femminismo ad aprire una breccia nella “politica separata”, sottraendo alla naturalizzazione e alla sacralizzazione esperienze umane essenziali, come l’amore, la sessualità, la procreazione, la dipendenza, la malattia, la nascita e la morte, non si può dire che il “primum vivere” sia ancora il grande rimosso della coscienza occidentale. Sia pure con modalità diverse, oggi è presente nei movimenti che si battono per la salvaguardia dell’ambiente, delle risorse naturali, dei beni comuni, della giustizia sociale, ma rimane incomprensibilmente passata sotto silenzio quella “risorsa”, quel “bene comune” che sono state per secoli le donne , assegnate per “destino biologico” alla conservazione della vita, e per questo incluse attraverso un’esclusione dal patto sociale. La loro nascita come soggetti  -e quindi come sguardo, pensiero, sensibilità sempre meno conformi a modelli imposti e incorporati-  non sembra avere scalfito la collocazione rassicurante che ne è sempre stata data, da destra come da sinistra, tra i gruppi sociali deboli, tra cui oggi, oltre ai minori, la massa dei giovani colpiti dalla precarietà, dei disoccupati e dei migranti senza lavoro e senza patria. L’oscillazione tra tutela o, al contrario, valorizzazione degli attributi specifici del femminile, se per un verso permette a politiche di stampo maschile di trincerarsi ancora dietro la maschera della neutralità, dall’altro continua ad esercitare sulle donne stesse il fascino di una complementarietà ambiguamente segnata sia dalle gerarchie di potere sia dal sogno di unità e armonia degli opposti.
Non si capirebbe altrimenti perché in tutti i gruppi nati fuori dai partiti negli ultimi decenni e debitori nei confronti del femminismo di scelte di democrazia partecipata, orizzontalità, attenzione al quotidiano, rifiuto della delega, pratica assembleare, le donne abbiano sostenuto il maggiore impegno organizzativo e contemporaneamente una contropartita sul versante ideativo e decisionale assai debole. Sulla dubbia “opportunità” rappresentata dalla femminilizzazione dello spazio pubblico e sulla seduzione che ha ancora sulle donne la chiamata al ruolo di salvatrici, si dovrà ancora discutere a lungo. Dall’incontro di Paestum, che viene dopo decenni di percorsi carsici, inabissamenti e improvvise riemersioni,  ci si può augurare che le donne, forti dell’autonomia che sono venute conquistando e oggi più presenti che in passato sulla scena pubblica, comincino, senza aspettare ruoli di potere, a“prendere parola” in tutti i luoghi in cui sono presenti e a promuovere senza paura del conflitto azioni efficaci di cambiamento.

 

9-10-2012